PRESENZE
SCULTURE DEL PRIMO NOVECENTO ITALIANO
Quest’anno nella galleria ARTETOTALE di Pietrasanta
Moranditappeti in collaborazione con STUDIOLO FINE ART
Propone
PRESENZE
SCULTURE DEL PRIMO NOVECENTO ITALIANO
Rassegna curata da Pierangelo Moretti
L’esposizione di un numero limitato di sculture del primo novecento italiano non può certo porsi come obiettivo quello di voler risultare una testimonianza esaustiva della molteplicità linguistica prodottasi in quel breve frangente d’anni nelle arti visive in Italia.
Oltre che essere in sé una esposizione di incontestabile valore, considerata l’alta qualità di ogni opera selezionata, la mostra si pone come indagine indiziaria del variegato versante figurativo della scultura italiana di inizio secolo. Una investigazione che quindi di proposito tralascia le emergenze più eclatanti e si impone di esplorare percorsi più nascosti, meno frequentati e ovvi, fuori mano, per così dire. Alla ricerca di tracce che nella loro costitutiva esemplarità bene testimoniano una autentica – ma insieme quasi inedita – consonanza con lo spirito del tempo.
Gli scultori esposti – sempre con opere uniche, è il caso di sottolinearlo – sono tutti autori di alto profilo, di riconosciuta maestria tecnica, storicizzati, presenti nelle più importanti rassegne d’arte nazionali e internazionali dell’epoca, che per le più diverse ragioni (non esclusa la bizzarria interessata del mercato dell’arte) sono rimasti a tutt’oggi infissi, quasi fino all’occultamento colpevole, nelle pieghe più nascoste della storia della scultura italiana.
Il titolo “Presenze” che si è voluto dare a questa esposizione, sulla base di quanto fin qui si è solo brevemente accennato, è da intendersi allora in un’accezione quasi spettrale: dimenticati i loro autori, le opere sono rimaste per lo più “invisibili” presenze, gelosamente custodite dagli eredi, celate in inarrivabili collezioni private o spesso nei depositi di quelle pubbliche. Il nostro intento è di offrire un contributo ad un processo di restituzione che da alcuni anni si è ormai avviato anche a livello istituzionale, con convegni, mostre, acquisizioni. Riportare queste opere alla piena, dovuta luce significa, dopo una loro così prolungata “assenza”, letteralmente riscoprirle.
GLI AUTORI, LE OPERE
Si intende iniziare la nostra rassegna – come ideale omaggio alla terra che la ospita – con la statua firmata e datata 1912 del lucchese Arnaldo Fazzi (Lucca, 1855 – Firenze 1944). In città e nel circondario non sono poche le opere che testimoniano l’arte di Fazzi; basti ricordare il maestoso monumento a Matteo Civitali oggi conservato nella loggia del palazzo pretorio di Lucca, oppure il grande bassorilievo in marmo della cappella cimiteriale del marchese Sardini realizzato nel 1904. Lo scultore, che debutta al Salon parigino del 1881, dimostra fin dagli esordi una grande maestria tecnica che si invera in opere caratterizzate da un sobrio, composto classicismo lontano da ogni enfasi. Il gesto accostante, invitante quasi, della nostra “figura classica” risulta paradigmatico di questa non auratica versione dell’antichità.
Una decisa impronta classica contraddistingue anche la testa virile in bronzo, risalente agli anni dieci, di Ludovico Pogliaghi (Milano, 1857 – Sacro Monte di Varese, 1950) certificata con firma dell’autore su fotografia. Tenacemente fedele ad una intemporale classicità, cui è possibile accostarsi solo mediante un’altissima qualità di linguaggio e un’eccezionale preparazione tecnica, Pogliaghi è oggi quasi solo ricordato per il colossale gruppo della Concordia posto sull’Altare della Patria a Roma e per l’ancora più imponente portale in bronzo del Duomo di Milano. Fu nella sua lunga vita assai prolifico, sia come scultore che come pittore e scenografo. Vastissimi e altamente selettivi i suoi interessi collezionistici che spaziano dall’antichità egizia a quella romana, al Cinquecento e Seicento italiani (la sua Casa Museo del Sacro Monte di Varese – dove peraltro è esposto il gesso originale, in tutta la sua grandezza, del portale del Duomo di Milano – testimonia in modo straordinariamente suggestivo questa sua non secondaria attività). La poetica di Pogliaghi – un Rinascimento ideale caparbiamente difeso e reinventato – è compendiata nella intensa testa virile qui esposta che si ispira liberamente a quella del Satiro di Ercolano.
Il ritratto di Leda Gys – nome d’arte dell’attrice del cinema muto Gisella Lombardi – fu realizzato da Giovanni Riva (Torino, 1890 – 1973) nel 1913. Una scultura che più che da volumi è costituita da linee, linee curve, senza soluzione di continuità. La bellezza diventa eleganza, quotidiana raffinatezza, in una parola, il Liberty. Non ci si sorprenda allora se la “diva” Leda in questione non pratichi l’Olimpo, ma più prosaicamente i fondali dipinti dei set cinematografici: è la Belle Époque, il gioioso, “floreale” avvilupparsi della “joie de vivre”. “Dal nostro esemplare, su scala leggermente più grande, è stata ricavata una copia, datata infatti 1915, ora conservata presso il Museo Nazionale del Cinema di Torino.”
L’inflessione liberty è riscontrabile anche nelle avvolgenti, ricercate circonvoluzioni delle forme che caratterizzano l’opera di Egidio Boninsegna (Milano, 1869 – 1958), risalente agli anni dieci del secolo. Nonostante questa rappresenti pur sempre “Diana e Giove”, il mito è qui interpretato con poetica simbolista più che con una volontà di ripresa dell’antico.
Simbolista, ma con l’icastica espressività di una ritratto toscano del Quattro-Cinquecento è la “Giovane alsaziana”, in marmo di Carrara, di Ezio Ceccarelli (Montecatini Val di Cecina, 1865 – Volterra 1927). Scultore attivo soprattutto a Firenze, amico di Rodin, presente all’Esposizione Internazionale Universale di Parigi del 1900 e del 1904 e invitato a quattro edizioni della Biennale di Venezia, Ceccarelli in quest’opera, forse interpretabile come allegoria della vittoria, perviene ad esiti di quintessenziale purismo. Esaltato dal non finito dell’abbozzo delle ali, il volto della giovane alsaziana, fuoriuscendo letteralmente dal marmo di fondo lasciato grezzo, sembra smaterializzarsi e la pur altera figura si abbandona così, compiacente, alla luce che la modella.
Al vasto alveo del recupero della classicità rinascimentale è da ricondurre anche “Risveglio” di Alfeo Bedeschi (Lugo di Ravenna, 1885 – Milano, 1971), un bronzo caratterizzato da un modellato armonioso, sapiente quanto raffinato.
Lo scultore Ercole Drei (Faenza, 1886 – Roma 1973) è presente nella nostra rassegna con ben due opere. Dagli anni dieci in poi lo scultore parteciperà più volte alle Biennali di Venezia e alle Quadriennali di Roma: da artista indipendente e schivo, senza appartenenze a gruppi o consorterie varie. La coppa con figura alata che qui si presenta risale alla seconda metà degli anni venti ed è stata commissionata all’artista dal Ministero dell’Aeronautica. Sul modello classico del corpo femminile che si erge voluttuoso e al contempo atletico a sorreggere la coppa con la quale tende quasi a fondersi, lo scultore innesta reminiscenze simboliste e flessuosità di gusto liberty. Una patina vellutata, alabastrina, impreziosisce ulteriormente l’opera accentuando la plasticità sensuosa dell’insieme: la scultura si fa oggetto, prezioso oggetto. “Apollo e Dafne” è del 1938. La versione ineludibile di Bernini del mito sembra, in questo bozzetto di notevoli dimensioni, ingaggiare Drei in una composizione più animata e articolata del solito. Nessuna concessione, comunque, all’iperbole formale del Barocco. La mantenuta compostezza classica, priva di ogni aulica retorica, unita ad una resa fremente della materia, risolve l’oggettiva drammaticità della narrazione mitica in una scena che nulla ha di cruento. L’aggressore Apollo sembra più che altro voler scongiurare, quasi bloccare implorante, la nefasta trasformazione di Dafne, salvare più che aggredire.
Il marchigiano d’origine e milanese d’adozione Enrico Mazzolani (Senigallia, 1876 – Milano 1968) è stato un raffinato scultore e ceramista. Fu amico di artisti come Carrà, Bucci e Dudreville. Gabriele D’annunzio, che molto lo stimava, gli commissionò diverse opere per il Vittoriale. Esporrà sotto l’egida di Margherita Sarfatti – nume tutelare dell’arte italiana fra le due guerre – con il gruppo di Novecento. Le sue figure sono sempre contraddistinte da una preziosa levità, da uno sviluppo sinuoso e da una materia scabra. Il suo arcaismo esemplarmente testimoniato da “La notte” del 1927 che qui si presenta, si esprime in un fare sciolto, sensibilissimo e intenso che riesce a coniugare, con sapiente equilibrio, potenza e grazia.
Il lombardo Vitaliano Marchini (Melegnano, 1888 – Mergozzo, 1971) è l’autore del “Nudo” in marmo di Carrara del 1930 che qui si presenta. Lo scultore, che partecipò alle Biennali di Venezia del 1910 e del 1930, divenne nel 1931 titolare della cattedra di scultura decorativa dell’Accademia di Brera, cattedra che fu di Wildt fino alla sua scomparsa. L’opera in mostra costituisce una sintesi accattivante di purismo neoprimitivo e di compattezza formale che rimanda alla “nuova classicità” di Novecento. La stilizzazione accentuata delle forme perviene in questo marmo a quella essenzialità volumetrica che fu perseguita anche da Wildt.
Vero e proprio fulcro dell’esposizione, per l’ampiezza temporale che queste opere testimoniano (dalla metà degli anni dieci alla metà dei trenta), per il loro numero e qualità e, non ultimo, perché esempio di una scultura al femminile, davvero rara per l’epoca, sono i lavori di Lina Arpesani (Milano, 1888 – 1974).
La scultrice frequenta l’Accademia di Brera ed entra pertanto a contatto con la tarda Scapigliatura milanese. Sicuramente conosce le opere di Medardo Rosso, alla poetica del quale si avvicina in modo assai prudente, intuendo forse le insidie di un’arte che intende aprire la figura ad un perpetuo “non finito” e che pone l’opera quasi al confine del suo stesso esserci, in perenne relazione con l’altro da sé, lo spazio. Sono testimonianze di questa prima, precoce attività scultorea della Arpesani due gessi patinati: “Fratellini” del 1913/14 e l’appena successivo, intenso “Autoritratto”.
Gli anni venti vedono Arpesani – amica di Margherita Sarfatti, l’ispiratrice del ritorno all’ordine italiano e quindi del gruppo Novecento – ingaggiata profondamente da questa nuova poetica. Parteciperà, tra le altre manifestazioni nazionali e internazionali, a diverse Biennali di Venezia, a quella di Roma del 1921 e, soprattutto, all’Exposition Internationale di Parigi del 1925, dove le viene addirittura riservata un’intera sala. Le opere di questo periodo, più compatte ed essenzializzate nella forma, entrano in consonanza con la scultura di Wildt (il vuoto come costitutiva formante interna della figura) e con quella che segna gli esordi figurativi di Lucio Fontana. Emblema della “moderna classicità”, esposta alla sesta Triennale di Milano del 1936 e assoluto capolavoro della nostra scultrice, è la “Venere mattutina” del 1935. E’ “moderna” anche nella materia che la costituisce questa scultura: l’anticorodal, una lega a base di alluminio e argento che in quel periodo si iniziava a sperimentare. Ma è il “classico”, che risulta in quest’opera decisivo, in una accezione però non romana (monumentale e celebrativa), ma greca. Il rimando è alla Grecia arcaica, alle Korai dell’acropoli di Atene, le eterne fanciulle con tunica, un braccio lungo il corpo, l’altro ripiegato a sostegno dell’offerta (nel nostro caso inarcato all’indietro e poggiato sul capo). Una grecità enigmatica, dove il tempo più che eterno si fa attimale: l’istante tutto umano di ogni risveglio. Venere, pur sempre sembiante del divino, è qui anche “mattutina, la sua prossimità intimamente femminile.
Pierangelo Moretti
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